L’allarme l’ha lanciato per primo Emilio Santoro, professore all’Università di Firenze, paladino dei diritti dei migranti: «Arezzo rischia di diventare la nuova Prato». Nel senso di un’economia parallela e illegale di sfruttamento dei lavoratori stranieri.
Nella città della lana cinesi e pakistani, in quella dell’oro ancora pakistani, bengalesi, indiani e in ultimo anche libici. Tutti sottoposti a forme varie di caporalato o di tratta del lavoro, organizzato quasi sempre, secondo chi studia il fenomeno, da imprenditori che hanno la stessa nazionalità delle loro vittime. E se a Prato è il tessile abbigliamento il cuore di questa imprenditoria illegale, come si è confermato ultimamente con i pestaggi da parte di squadracce agli operai che protestavano, manco a dirlo che ad Arezzo nel mirino c’è soprattutto il distretto orafo, il più importante d’Europa: 1.200 aziende, 7.500 dipendenti ufficiali, un export esploso nell’ultimo anno, quasi 4 miliardi in soli sei mesi.
È uno sfruttamento che, secondo le poche testimonianze dei migranti ancora restii a parlare e soprattutto denunciare, si esprime in vari modi, l’uno più doloroso dell’altro: il reclutamento nei Paesi d’origine, appunto Pakistan, Bangladesh e India, con le vittime costrette a ripagare il viaggio e il soggiorno in Italia, le trattenute in nero sullo stipendio, formalmente corretto, il lavoro massacrante, anche di notte, anche la domenica.
Che il fenomeno esista è indubbio. Lo dicono anche i blitz dei carabinieri e della guardia di finanza, che nei giorni festivi o a tarda ora hanno sorpreso i migranti ancora al lavoro nelle fabbriche dei connazionali. Lo raccontano le immagini dei migranti in bici che al buio vanno o escono di fabbrica, lo dicono le inchieste giornalistiche, ultime quelle del Post e dell’Aria che tira de La7, che ad Arezzo hanno scatenato un vespaio.
Il difficile è misurarne le dimensioni: «Poche mele marce», come le definisce Gabriele Veneri, imprenditore orafo e consigliere regionale di Fratelli d’Italia, o una miriade di sfruttati?
La paura e l’omertà fra imprenditori e lavoratori stranieri sono palpabili. Persino Tito Anisuzzaman, l’imprenditore bengalese che per primo si era esposto nel denunciare, ora non vuol più parlare: teme per la sua attività.
Quanto ai migranti vittime, raccontano solo con la garanzia dell’anonimato. E sono parole da brividi: turni di 14-15 ore fin nel cuore della notte, salari da contratto di 1.500 euro di cui devono restituire un terzo ai titolari, paura di ritorsione sui familiari rimasti nei Paesi di origine.
Ma quanti sono quelli che qualcuno ha definito «gli schiavi dell’oro»?
I sindacati, in particolare la Fiom-Cgil, non si esprimono: «Per noi — dice sconsolato il segretario Antonio Fascetto — è un mondo sconosciuto, da hic sunt leones». Lui racconta anche, come esempio, di un migrante che aveva avuto il coraggio di denunciare ed è stato picchiato selvaggiamente.
Dietro l’anonimato, un imprenditore straniero (ce ne sono circa 400 fra pakistani, bengalesi e indiani, attivi anche nel comparto degli accessori per la moda) azzarda la cifra di un migliaio di sfruttati. Secondo David Faltoni, avvocato di molti migranti, sono ancora di più: «Ci guadagnano pure le aziende italiane in cima alla filiera, che risparmiano sul costo del lavoro dei loro contoterzisti, spesso imprese straniere. Ma ci sono anche i caporali veri e propri». Giordana Giordini, presidente di Confindustria-Oro e della Consulta orafa, ci tiene a distinguere: «Non si può gettare fango su un intero settore, bisogna punire piuttosto chi infrange le regole».